KEROUAC BEAT PAINTER

nota per Stanze, n.2 STRADE, settembre 2022 
di Marta Silenzi


Le nostre valigie logore erano di nuovo ammucchiate sul marciapiede;

dovevamo ancora andare lontano, ma che importava, la strada è la vita.”

(J.K. Sulla Strada)



Jack Kerouac era un pittore? Anche. Un disegnatore, un pittore, un pazzo del colore, della penna, della macchina da scrivere, un visionario che aveva bisogno di esprimersi e lo faceva con tutta la gamma di strumenti a disposizione.

Aveva realizzato l'ipotetica copertina di On the road prima ancora di averne finito la stesura.

Alla sua morte nel 1969 la quantità di ritratti, schizzi e dipinti era enorme. I taccuini rigonfi. A volte tocchi di colore, a volte poche linee e curve. Tutto preso con vigore, energia assorbita e restituita, flusso ininterrotto, ritmo, vitalità. Come con le parole. Come con la scrittura.

Il senso di libertà che pervade l'immaginario letterario di Kerouac e dei beat in generale lo si ritrova integrale nella produzione visiva: immediatezza, pochi dettagli incisivi, molto concetto. Le tematiche sono le stesse della prosa: riempire un attanagliante senso di vuoto, lanciarsi in una sorta di ricerca esperenziale anche attraverso le droghe, le benzedrine soprattutto, indagare la spiritualità con un sincretismo religioso che unisce l'educazione cattolica ricevuta a Lowell con il buddhismo sperimentato con i beat; una forte tendenza all'anticonformismo e alla ribellione coniugati con l'ossessione del viaggio, dell'andare, del cogliere l'attimo.

Si tratta sempre della “leggenda di Dolouz”, l'insieme di tutta la produzione di Kerouac – come la intendeva lui, come la vedeva chiaramente sin dall'inizio – alla maniera della ricerca di Proust, in cui però rientrano anche illustrazioni, dipinti, poesia, haiku, quell'insieme di elementi che secondo Gérard Genette costituisce il paratesto necessario alla stesura del testo stesso. Del resto è una pratica di tutti i beat, talmente gavidi da corroborare i loro scritti con disegni, fotografie, musica, suoni, ritmo, registrazioni e cinematografia.

(...) queste opere pittoriche (…) sono parte di quel fenomeno potente che è stato Jack Keruac, come fossero membra di un mitico corpo, così dinamico e vorticoso da aver bisogno, per esprimersi, di una molteplicità di strumenti”, scrive Sandrina Bandera della collezione che Kerouac aveva lasciato al cognato John Sampas, esecutore testamentario, buon divulgatore e promotore del valore e significato anche di questa forma espressiva dell'autore franco-canadese.

Una prosa spontanea per immagini. Esattamente come per la scrittura. “Una sincera apertura dell'anima, perchè la vita è sacra e ogni momento prezioso” (Sulla Strada).

L'arte è uno degli ambiti di ispirazione per tutto il gruppo della beat generation, sono numerosi i passaggi in cui ne parlano, sia nelle lettere che nelle rispettive pubblicazioni. Kerouac rincorre Van Gogh e Cezanne, considerati le basi della visione contemporanea secondo le lezioni di Meyer Shapiro frequentate alla Columbia; e poi William Blake e l'opera grafica di Picasso, fino all'esplosione dell'Espressionismo Astratto, della pittura gestuale, di quel guizzo da inseguire e restituire forsennatamente alla maniera di de Kooning o di Adolph Gottlieb, quella scuola di New York avvicinata e frequentata grazie a Dody Muller e dalla quale Kerouac acqusisce un metodo cui si dedica con serietà. In un quaderno degli appunti, il 27 gennaio 1959, scrive la sua sequenza di fasi nell'esecuzione di un dipinto: ”1) usa solo il pennello, non il coltello per mescolare i colori, dimentica i colpi di pennello, non usare le dita per schiacciare, evita di lasciare segni che non sono reali; 2) usa il colore spontaneamente: cioè senza disegno, senza lunghe pause o attese, senza grattare, sovrapponilo a strati; 3) le figure devono convivere o con lo sfondo o con le pennellate dipinte; 4) dipingi cosa vedi davanti a te, non fingere mai; 5) fermati quando pensi che sia una prova. In realtà hai già fatto”.

Il metodo è applicabile anche alla scrittura: onestà della sensazione, fedeltà alla visione.

I soggetti non sono altro che ricordi, esperienze, visioni appunto.

Ritratti, jazz, ritmici, schizzi evocativi di situazioni, volti dalle strade, pochi dettagli incisivi, senso d'insieme. E poi angeli, sintesi della cricifissione e posizioni yoga: culture sincretiche, psichedeliche in cui ravvisare il significato della visione, questo termine che torna sempre, nei titoli, nelle descrizioni, applicato a Dean Moriarty, al fratello Gerard, ai sotterranei in generale, che sono beat come battuti ma anche come beati, in un rapporto viscerale col mondo, tanto fisico quanto mentale e spirituale che rende Kerouac un “fuorilegge dell'apparato sensoriale” – come lo definisce Michael McClure.

Ci sono dipinti a tema naturalistico, come tante scene descrittive di Sulla Strada o Big Sur, in uno stile tattile e figurativo insieme, composizioni impressioniste rese da una pittura espressionista; ci sono prove segnico-gestuali, cromatiche e materiche, volte all'improvvisazione, come facevano Jackson Pollock o Charlie Parker, sperimentatori estremi fino all'autoditruzione, autentici ribelli, innovatori la cui energia ritmica sovverte i modelli culturali e trasforma le convenzioni.

E poi ci sono quei due o tre fogli che valgono tutto il resto. Come nei libri, quelle due o tre o trenta frasi disseminate nel mare magnum della scrittura spontanea che sono autentiche illuminazioni, impareggiabili, che non serve spiegare, basta lasciarle agire, risplendere, esplodere. Nessun capolavoro, soltanto magia beat.



-Dobbiamo andare e non fermarci finchè non siamo arrivati.

-Dove andiamo?

-Non lo so, ma dobbiamo andare.”




SEITZINGER ALCHEMICA

nota per Stanze, n.2 DONNA, giugno 2022 
di Marta Silenzi 



“Ho osservato tutti gli esseri: pietre, piante e animali e mi sono sembrate come lettere sparse rispetto alle quali l'uomo è parola viva e piena.”


“Ogni elemento ha un suo colore: la terra è azzurra, l’acqua verde, l’aria gialla, il fuoco rosso; poi vi sono altri colori casuali e commisti, appena riconoscibili. Ma tu bada con cura al colore elementare che predomina, e giudica secondo quello.”


— Paracelso


Inaugurata lo scorso maggio al Forte Malatesta di Ascoli Piceno, Seitzinger Alchemica, prima personale di Elisa Seitzinger, s'impone come una mostra di grande impatto e di grande contenuto.

Spazio espositivo ed opere scelte hanno una corrispondenza cercata e ben individuata ed è da lì che parte l'immersione in una strana atmosfera antica e contemporanea al tempo stesso.

L'allestimento è di quelli che offrono un'esperienza plurisensoriale, con la diffusione di musica coerente ed essenze create ad hoc, con la proiezione di interviste e making of, con installazioni di cui entrare a far parte. Tutto questo perchè l'illustratrice, nata alle pendici del Sacro Monte Calvario di Domodossola e oggi stabile a Torino, è poliedrica e complessa e questa mostra consegna una mappa per seguirla nel suo mondo.

L'attenzione del duo Verticale d'Arte, ovvero Elisa Mori e Giorgia Berardinelli – assieme a Stefano Papetti, Filippo Sorcinelli dell'Associazione culturale PAM – ProArteMondolfo e Paolo Lampugnani dell'Associazione Musei d’Ossola – punta tanto alla presentazione dell'artista quanto al coinvolgimento del fruitore, guardando all'insieme loro stesse da spettatrici prima ancora che da curatrici, prendendoci gusto, mantenendo il rigore quanto l'entusiasmo e costruendo attorno alla Seitzinger un abito la cui foggia è di grande qualità.

Uno studiato lavoro di selezione delle cospicue produzioni dell'artista ha portato ad un racconto del suo percorso in in 10 sezioni, dal primo piano del Forte Malatesta fino alla sala della chiesa di Santa Maria del Lago, dentro un viaggio dal sacro al profano, tra miti, leggende, effigi e musica, fino al culmine dell'installazione dei Tarocchi: Da Super Ego a SuperNova, Icone, Arcadia, Santeria, Deep England, Bestiario d'Amore, Sibilla, Formosus, Ritratti, Arcana.

La Seitzinger è attratta dall'arte medievale, primitiva, sacra e cortese, dalle vetrate gotiche, dai codici miniati, dalle icone russe, dai mosaici bizantini, dall'iconografia esoterica, dagli ex-voto, dai Tarocchi (nello specifico quelli della Vedova Fantini di Borgomanero trovati nella ex fabbrica di Spruzzatori del nonno) e anche dall'arte visiva degli anni venti e trenta e questo immaginario ricchissimo e definito, questa atmosfera ricercata e un po' inquietante che guarda indietro, guarda al contempo in avanti e si tinge d'ironia, nasconde il gioco, come negli inserti didascalici delle Sante Martiri che traducono i testi di Madonna per rendere “il martirio femminile” come “patire della carne quale forma estrema di amore divino, a tratti erotico” – scrive Matteo Piccioni nel testo relativo alla sezione.

Il connubio col mondo della musica è evidente, tre delle dieci sezioni riguardano collaborazioni dell'illustratrice con musicisti: l'album Deep England del progetto Gazelle Twin & NYX, Organic di Formosus (di entrambi sono i brani diffusi negli ambienti), e Bestiario d'Amore di Vinicio Capossela, tutti illustrati magistralmente da una Seitzinger ispirata e accordata alla sensibilità di quei contesti musicali. E poi c'è il bellissimo ritratto di Kurt Cobain per l'Espresso, “disegnato in un'eplosione di simboli e riferimenti che coglierne anche solo la metà” equivale “a leggere una biografia” del cantante (dal testo in catalogo di Stefano Cipolla).

Che siano commissioni private, promozioni, illustrazioni per riviste o pubblicazioni (Nome non ha di Loredana Lipperini per Hacca Edizioni sulle Sibille marchigiane), Elisa Seitzinger è una viaggiatrice del tempo che guarda al passato per rinnovarne lo stile in chiave di moderne allegorie, giochi grafici con vasti corredi simbolici, sfide alla decifrazione.

L'artista parte sempre dal disegno manuale a china poi elaborato in cerca di una bidimensionalità e una staticità che rende tutto molto preciso, nitido e molto iconico; lei stessa dice che personaggi storici e contemporanei ma anche concetti astratti vengono affrontati come “amuleti che svelano significati reconditi”: le molte figure senza pupille e gli occhi che poi spuntano sulle dita e prolificano altrove, il segno da fine tatuaggio, il sapore araldico, le citazioni ben disseminate, la vasta cultura evidente in tutti i riferimenti.

Netta è anche la scelta cromatica dei colori primari rosso, giallo e blu intrecciati al grigio, nero e bianco, che in qualche modo richiamano le fasi alchemiche, che si combinano in altre tonalità fredde e sapori metallici, forse per arrivare proprio all'onniscenza della Pietra Filosofale.

Sietzinger Alchemica pone l'accento soprattutto sulla qualità dei materiali che veicolano le illustrazioni di questa iconica ed insolita artista: dai tessuti a parete alle stampe fine art di raffinata caratura tattile, dalle scelte di allestimento al catalogo, magnifico lavoro grafico con l'attento editore Rrose Sélavy, che annovera nomi considerevoli del mondo dell’editoria, della musica, della radio, della comunicazione visiva, del design e dell’arte (Vinicio Capossela, Loredana Lipperini, Nicola Lagioia, Jonathan Bazzi, Mauro Bubbico, Maria Vittoria Baravelli, Stefano Cipolla, Diego Passoni, Simone Sbarbati e Matteo Piccioni) segnando un ritorno al catalogo analitico, ai testi importanti, all'approfondimento e alla spiegazione, all'aggiunta di studio e ricerca che purtroppo oggi, a corredo di una mostra, sono quasi scomparsi.


Seitzinger Alchemica

28 maggio - 18 settembre 2022

Forte Malatesta, Ascoli Piceno


15 ottobre 2022 - 8 gennaio 2023

Collegio Mellerio Rosmini, Domodossola.



 



SILVIA MEI - MASCHERATA

nota per Stanze, n.2 Donna, giugno 2022 
di Marta Silenzi 


“(...) come ci si può ispirare a qualcosa che non si sente sulla pelle? Nella carne?Le nostre opere, noi, siamo quello che vediamo, che sentiamo, che beviamo, che baciamo, che odiamo, che leggiamo, che guardiamo, che annusiamo, che ricordiamo, che ripudiamo.”

(S.M. 2017)


Sembra di sentire i campanacci.

Quest'artista si porta la sua terra dentro. La verità, l'asprezza, la bellezza, l'inquietudine, che finiscono in un linguaggio personale, vivace, definito e carico.

È sarda, Silvia Mei, di Cagliari e, anche se gli studi e il suo lavoro attraversano l'Italia e mezzo mondo, la matrice resta forte e impregna il suo lessico pittorico.

Le figure della Mei sono lontane dall'idea del bello o del mimetico, sono ambigue, perlopiù femminili ma si muovono su piani liminali perchè il modello che rispecchiano è psico-sensibile più che fisico, è un mondo interiore che assume un aspetto estreriore.

Sono maschere. Che richiamano quelle della tradizione sarda ma che assumono significati più sottili, giocano con quel codice per portare in superficie momenti e disagi di vario genere, attuali, singolari ed universali.

È una che affronta le sue paure quest'artista, una che cerca una sincerità spietata, che ne denuncia i camuffamenti, che parte dagli incubi per farne pittura (“Urlare senza essere sentiti, urlare ma non avere voce, urlare in una folla maledettamente sorda. Puoi essere capita, fraintesa, ignorata, ma non ha importanza: tu l'hai detto.”), che si adatta agli spazi e trae la tecnica dalle sue scomodità (“quando non avevo spazio per dipingere e avevo voglia di farlo in grande arrotolavo la carta finchè non decidevo/sentivo che il dipinto era finito. Per questo la maggior parte dei miei lavori sono su carta, successivamente decidevo se farli intelare, intelaiare o lasciare liberi. Ora che ho cambiato casa, o meglio, stanza, non ho più pareti per appendere la carta, perciò dipingo più su tela. Odio non sentirmi libera, ma sono tutti stimoli che da negativi cerco di trasformare in positivi tramite la pittura stessa”).

Le sue mostre hanno nomi come L'odore (2017), Dolcissime nevrosi (2021) e – che parlino di tempo che si sovrappone sulle superfici riprese a distanza di anni o di un'umanità alla deriva preda di ansie e sofferenze psichiche – presentano questo popolo di donne/animali vagamente malinconiche e un po' sinistre, prese dentro fondali e vesti a ricami festosi di memoria sarda mista a un gusto per Ensor, l'Art Brut, il Doganiere e magari Frida Kahlo; le fisionomie e la bellezza nascoste dietro maschere di colore denso, schiuma poliuretanica e pasta acrilica, croste plastiche che comunicano disagi enigmatici, rovelli psico-emotivi che assumono queste strane sembianze in cui tutto è comunicativo, dal segno semplice al colore piatto, dal multistrato alle tecniche miste di capelli e popcorn: tutto concorre a destabilizzare, porsi domande, comprendere che c'è una complessità umana onirico-grottesca, insana, forse anche ironica, una parte del tutto.

Ne è una sublimazione la recente The dark buttefly, donna-inganno, donna-odio, donna-oblio che si appropria della bellezza, della leggerezza di cui la farfalla è simbolo, per farne un marchio nero di lutto per qualcosa che fa ancora male, o di ostilità e risentimento sotto le mentite spoglie della femminilità, immersa nei colori splendidi del fondale, ammaliante negli occhi piccoli, nello sguardo tagliente che, assieme a quel muso suino, evoca la seduzione del male. Il coagulo nero sul volto è lo snaturarsi dei tratti di chi non può essere se stesso, la mancata libertà della farfalla, ancora una volta la maschera che si è costretti ad indossare.

Silvia Mei è un'artista dalle tematiche forti ed astruse, la tavolozza brillante, il cui impeto ed animo vanno certamente indagati a fondo.




THE WIDE SEA COMES EACH MORNING

nota per Stanze, n.1 Natura, marzo 2022 
di Marta Silenzi 



Un'estrema delicatezza. Un occhio puro che sa vedere, una mano ferma che sa cesellare. Un animo attento che sa ascoltare la Natura, entrare in empatia, andare alla ricerca del selvaggio sfidando il mare ed il vento, quelli islandesi, mettersi in relazione con gli elementi e con i materiali semplici e perfetti che la Natura offre e assecondarne la trasformazione.

Tamara Ferioli (classe '82, studi all'Ecole des Beaux Arts de Lyon e diploma a Brera) ha questa sensibilità che sfiora le origini ambientali e le riflessioni esistenzialistiche, lo fa con un garbo manuale ed una finezza espressiva che richiamano subito precisione e pulizia, del foglio leggerissimo dove disegna, delle architetture immaginifiche che evoca, di tutta la sua produzione, dalle installazioni alle fotografie.

Sono del 2018 queste sculture realizzate da ossa di pesce selvatico del Nord Atlantico: scarti del pescato che assumono forma vegetale, fiori dalla struttura a incastro perfettamente offerta dal materiale organico, cavità e prominenze anatomiche, porosità, filamenti appuntiti e un biancore d'avorio che l'artista assembla come per un prodigio, mostrando la bellezza plastica, l'esattezza, l'ordine seriale, i principi matematici sottesi ai sistemi biologici di una Natura Sapiens tutta da osservare.

Installazioni di The wide sea comes each morning sono andate in mostra alla Galleria Officine dell'immagine di Milano assieme a disegni a matita, capelli e carta applicata, in un concept chiamato VITA, termine omofono e omografico del verbo islandese che significa sapere, e ancora al Palazzo dei Priori di Volterra con REBIRTH, alludendo al ciclo della vita in cui ogni trasformazione è una rinascita.

MIRKO BARICCHI. LA SOTTRAZIONE DELLE COSE
articolo/intervista per Stanze, n.1 Natura, marzo 2022 
di Marta Silenzi



Cose. Simboli-oggetti di uso comune, ciotole, sedie. Cose evocate, ripescate nella fluttuante memoria, comparse sui toni bruniti, come elemento disordinato e poetico nell'ordine organizzato dello spazio. Toni bassi e pacati, intimità diffusa di accadimenti, pittura di velature, collage a palinsesto, ocra, bianchi, bitume. Sogni ed inquietudini forse, libertà sempre, della pennellata, del segno, dell'immaginazione produttiva, della percezione all'erta. Il pittore nudo di fronte a se stesso, al suo mondo interiore e di fronte alla pittura che è verbo espressivo, è lingua che parla, che assorbe e restituisce con una volontà propria, catalizzatrice del circostante attraverso il corpo-mente dell'artista e creatrice attraverso la sua mano. C'è spazio per tutto. Non c'è spazio per nient'altro.

Mirco Baricchi (una k spuntata per gioco nei cataloghi al posto della c), si aggira tra gli anni Novanta ed il primo decennio del 2000 in queste atmosfere piene di apparizioni, di frammenti, di evocazioni, senza intenti narrativi, restando in ascolto dell'impercettibile, come un medium fa con i fantasmi, dipingendo una sua imagerie, un suo personale sentire, sensibile alle influenze dei suoi contesti e del suo tempo, sì, ma senza particolari debiti, individualista, fedele al suo pennello, a ciò che accade nel suo studio spezzino, semmai alle esperienze in Messico e al gusto per le sfumature che gli hanno lasciato. È attratto dalle tecniche miste, non si pone limiti, si apre a tutto quello che la sua pittura chiede, a tutto quello che la sua pittura porta.

Dal 2008 inizia la collaborazione con Cardelli & Fontana di Sarzana e tutto quanto si aggira nei suoi quadri fino a quel momento non si perde, non si perde mai a dirla tutta, e si esprime sulle tele di una mostra che prende il titolo di Cloudy, un suono dolce inglese scelto perchè qualcuno di vicino e con semplicità pone l'attenzione su qualcosa, nelle tele, che potrebbe anche essere figurale, un orizzonte, un cielo nuvoloso, che magari l'artista aveva dentro ed è emerso con temperamento automatico, lasciandosi scoprire a posteriori, ed ecco che parte un apprezzamento per le nuvole ed un primo avvicinarsi ad elementi naturali, atmosferici, per caso oppure no.

Arboree, tramonti, piogge e nuvole, terranei sono soltanto alcune delle indicazioni naturalistiche che Baricchi lascia come sedimenti, come sassolini lungo un cammino complesso, giocato su toni scuri e bronzati, grigio-azzurri notturni, velature e sgocciolature in spazi bi o tripartiti in cui avvengono accadimenti e apparizioni giocose, le cose, appunto, che tornano e torneranno sempre, conigli e radici, culle, lettini appena abbozzati figli di piogge e temporali, frammenti di frasi e girotondi, parole in corsivo, lettere sospese, stivali, la poetica del muro, la casualità del dripping ed un gusto generale che raccorda e sa mettere tutto in perfetta armonia.

È un momento propizio, catalitico, la nascita del legame con la galleria di Sarzana, il passaggio da uno studio diviso per stanze ad un open space che gli permette di entrare nei quadri come fossero scene, in contatto costante, in colloquio continuo. La bellezza della mostra e della produzione di questo periodo si riflette anche nel catalogo ed in tutti quelli che Baricchi realizza in seguito con Cardelli & Fontana.

M.S. Ho amato molto certi tuoi cataloghi, la scelta di inserire foto d'insieme degli allestimenti, foto in studio come una sorta di making of.

Quanta parte ha Mirko Baricchi nella realizzazione dei cataloghi?

M.B. Adoro la carta stampata. Fin da bambino. E subisco il fascino della grafica in generale, ma

quella tedesca e scandinava mi hanno sedotto. I miei cataloghi sono il frutto di un lavoro a quattro

mani con il mio gallerista di Sarzana, Galleria Cardelli & Fontana.

Ci si conosce da molto tempo e c'è una sorta di empatia, una predisposizione per l’eleganza austera di certi libri anni 70. Il libro catalogo deve in qualche modo informare e intrattenere con dosi funzionali di didascalie. I luoghi della lavorazione o le installation views sono a mio avviso molto illuminanti, oltre che essenziali nel ritmo di un racconto.

È questo anche il momento in cui si fa più stretto, sebbene in maniera del tutto spontanea, il focus sulla Natura. 

Nel 2010 Mirco Baricchi realizza una mostra per la Galerìa Barcelona, di Barcellona appunto, che prende il nome di De Rerum ed è come un discorso ininterrotto da Cloudy, sono atmosfere similari ma non identiche, qualcosa va lentamente schiarendosi a volte, i bianchi sono bagliori racchiusi nel buio, conigli-fantasmi dall'animo arboreo, epifanie una dentro l'altra, le cose ancora, file e file di banchetti, conigli saltellanti e pinocchi e, con le cose, ramoscelli ed arbusti, lande orizzontali e parallele di bianche spiagge e pioggia mista, come dimensioni a confine che tendono a parziali sovrapposizioni: si ha l'impressione costante di assistere a prodigi impalpabili, magie del ricordo. Quello a cui assistiamo è l'inscenarsi del mondo di Mirco Baricchi, poetico, intimo, circostante, che non si ritrae, anzi, che accoglie ogni elemento che va a bussare alla sua porta, restituendo sensazioni, gesti, suoni, odori, tutto ciò che avviene tra tela e pennello, tra uomo e supporto, qualcosa che assume forme diverse per ogni osservatore. Nessuna interpretazione sarà mai definitiva, l'arte è un'intuizione difficile da tradurre a parole, si può cercare di evocare ma un mezzo non verbale non lo si afferra mai del tutto e in fondo ciò che conta è la realizzazione, il produrre, lo staresene lì con matite, carboncini, pennelli e colori: un retino per catturare le farfalle, il terreno che calpesta il pellegrino. (...)













Moleskine - viaggio quotidiano
ed. Zedia, 2020
testo in catalogo Renzo Ferrari Moleskine 2020 Pandemia 



Seconda ondata di Pandemia. Minaccia di un nuovo lockdown. Il lavoro di scrittura per parole ed immagini di Renzo Ferrari non s'interrompe mai e, se la produzione intensa della prima parte del 2020 aveva portato ad una mostra e ad un catalogo chiamati Corona Diary, ora ci troviamo di fronte ad una sorta di sequel che guarda più nell'intimo, in quei luoghi cartacei spesso personali che sono i suoi leggendari taccuini neri.

La pratica di lavorare con dedizione quotidiana, di produrre su più fronti, di sperimentare con più tecniche e di relazionare tutto anche agli avvenimenti circostanti, pescando da dentro come da fuori, è tipica di Renzo Ferrari, lo rappresenta, corrisponde al suo carattere vulcanico e la sua vena di grande grafomane emerge anche in questa particolare raccolta delle Moleskine, divenuta assai numerosa negli anni.

La classica agendina nera di origini francesi che prende il nome dalla finta pelle cerata della copertina, libricino di annotazioni di tanti scrittori ed artisti, da Oscar Wilde a Ernest Hemingway, da Picasso a Matisse, e fedele compagno di viaggio di Bruce Chatwin che ne parla proprio ne Le vie dei canti, è partner ed amica di lunga data anche di Renzo Ferrari.

Spesso gli artisti contemporanei sono anche scrittori della loro arte, riflettono sulla loro produzione e su quella di altri esponenti, si fanno critici e filosofi, saggisti ed antropologi dell'arte nelle loro pagine non sempre destinate alla lettura, talora illuminanti, in ogni caso di grande interesse per comprendere a pieno i significati più personali e più profondi, la genesi di una grande opera, il lavorio mentale che annota e precede, che coglie quell'attimo fuggevole, quella sfumatura nell'aria, quel trillo circostante, o quella sequenza di pensieri a sostegno di tutto un processo creativo.

Ferrari fa di più. Le sue Moleskine sono veri e propri diari d'immagini e scrittura che registrano quella che lui chiama “ordinaria quotidianità” (forse non a caso l'assonanza con l'ordinaria follia del film di Joel Shumacher o del libro di Charles Bukowski), e sono particolarmente indicative del suo modus operandi e del suo atteggiamento ricettivo e creativo in generale.

Tutta la produzione di Renzo Ferrari si collega infatti indissolubilmente al quotidiano, al vivere quotidiano ma anche al fatto quotidiano, la sua è una registrazione dell'esterno che avviene attraverso i media e poi subisce un processo di metabolizzazione che si spiega in opere di straordinaria potenza visiva e forza interna, sia per colore che per iconografia; gli avvenimenti di attualità vanno a sommarsi al bagaglio psico-emotivo innescato nell'uomo e si traducono nella realizzazione dell'artista, ogni volta con un linguaggio differente, quello più appropriato per testimoniare e restituire quel flusso e quel big bang di emozioni.

Questa giornaliera attività è molto evidente nelle paginette dei suoi taccuini, specie se poi confrontata anche con i lavori di grande formato su altri supporti: si tratta di un movimento che parte dall'esterno, in questo caso le notizie circa l'attuale pandemia, e viaggia all'interno dell'artista per poi tornare di nuovo esterna nella sua produzione iconografica, simbolica, segnica e cromatica (...)


















JUDIT KRISTENSEN, disegni
ed. Centofiorini, collana della Marca, 2017
testo in catalogo della mostra Watching television 
Galleria Centofiorini 3-31 dicembre 2017



Folgorata da una collettiva itinerante di disegni realizzati rapidamente e chiamata a farne parte, Judit Kristensen inizia la sua avventura con l'arte nel 2016, come se si trattasse di una chiamata o di una risposta ai suoi desideri.
Durante gli studi di psicologia ad Umeå, nei mesi invernali del nord della Svezia che sono come una lunga notte per metà dell'anno, Judit Kristensen si trova infatti ad aver bisogno di una reazione e di una ribellione: la prima arriva con i suoi disegni, la seconda con la scelta di venire in Italia.
Come un'evasione, i lavori del periodo di Umeå rappresentano piscine azzurre, spiagge di palme, nudi sensuali, un'intensa luce diurna a rilevare dettagli di disegni colorati con pennarelli su carta, con tratti vagamente infantili e una diffusa atmosfera come di attesa o di strana inquietudine che isola le scene raffigurate da un'ipotetica sequenza temporale, caricandole di aspettative.
Gli esterni, il verde, l'azzurro, la nudità in pieno sole, sono tutte espressioni di una volontà, di un bisogno di fuga che cede spazio, nei disegni italiani realizzati per la Centofiorini, ad interni dominati da nature morte che lasciano la luce di giornate assolate a finestre sull'esterno, dove si trova tutta la vita a lungo sognata ma che in qualche modo non riesce ad essere vissuta.
È una sottile linea psicologica quella che insegue Judit Kristensen in questa serie: sono sensazioni di noia, apatia, indolenza, affidate alle ombre di tende e poltroncine, a bottiglie sui tavoli e a schermi televisivi fissi su canali in attesa di programmazione. Se il bianco dominante dei primi lavori le permette di scappare dalla lunga notte svedese, oggi che è immersa nel sole dell'Italia sembra ci sia bisogno di un contrasto o di un limite da porre alla piena esperienza della luce.
La scelta cromatica è più scura ma quel senso di inquietudine e di attesa non è cambiato ed è ancora affidato ad una tecnica veloce e semplice, affinché l'impeto venga subito colto, realizzato senza le dispersioni che potrebbe causare l'utilizzo di procedimenti più lunghi ed articolati.
Del resto gli artisti che più influiscono sulla sua visione rispecchiano questo modo di lavorare: dall'americano Daniel Hidkamp, allo svedese Bengt Johnsson-Wennberg, al californiano Henry Taylor, o anche Dexter Dalwood, Mike Silva o Anna Bjerger.
È quindi uno sguardo fresco, attuale ed impegnato quello di Judit Kristensen, che mette insieme una mostra insolita ed interessante alla Centofiorini, con immagini da interpretare, dietro le quali riuscire a captare la riflessione intensa di questa giovane artista.

Art is very important for me, and it always has been. When I found art it was like finding humanity, like finding out that I was not alone in the world. Art for me is a communication on a level beyond words. Making art can make me feel the relief of having truly spoken, and consuming art can make me feel like I have truly understood someone.” J.K.